"Un caffé per me e per la mia coscienza"

giovedì 21 aprile 2011

Il capo del governo con gli occhi di Elsa Morante

"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera
di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato
la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.

Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?

Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte
per
interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva
naturalmente
conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al
forte
piuttosto che al giusto.

Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il
tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il
tornaconto.

Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.

Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un
partito
di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue
maniere, i
suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon
senso
della gente e causa del suo stile enfatico e impudico.

In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un
più
completo esempio italiano.

Ammiratore della forza venale, corruttibile e corrotto, cattolico
senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre
di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza,
si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo
abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo,
senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che
vuole rappresentare."

                                                Elsa Morante (1945)

PS: il capo del governo in questione era Benito Mussolini

martedì 19 aprile 2011

Il mito del posto fisso

c'è un articolo molto interessante di Irene Tinagli del 9 marzo scorso sulla Stampa che ribadisce, statistiche alla mano, quanto sia utile studiare e conseguire un titolo di studio, una laurea. L'istat infatti dice che chi possiede un diploma di scuola superiore ha meno possibilità di raggiungere una stabilità lavorativa e un'adeguata retribuzione. Insomma, i laureati ottengono più facilmente un lavoro (l'80% dei laureati a 5 anni dalla laurea ha un'occupazione) e guadagnano in media il 55% in più rispetto a un 'semplice' diplomato.
A parte i dati, secondo me c'è qualcosa su cui riflettere.
La laurea è diventata un po' pret à porter, tantissimi corsi il più delle volte poco 'utili' ma decisamente affascinanti e bizzarri, un accesso allo studio semplificato soprattutto grazie a mini esami e mini corsi, una laurea in tre anni che non prevede nemmeno la realizzazione di una ricerca strutturata, ma semplicemente una 'tesina' di 30 pagine. Il gioco è fatto. Però, i dati degli iscritti scendono.
Poca voglia di studiare? o poca, pochissima fiducia nel futuro?
ma il futuro che cos'è, un posto fisso?
i nostri genitori ambivano al posto fisso, era un loro diritto, il frutto di una loro battaglia. i nostri genitori hanno ottenuto (nella maggior parte dei casi) un posto fisso. e noi? siamo ancora così legati al mito del posto fisso?
è paradossale ogni tanto scambiare quattro chiacchiere con alcuni compagni. siam diventati internazionali, non solo europei, giriamo il mondo, parliamo tante lingue, snobbiamo spesso l'italia ma... al posto fisso e alle garanzie a tutto tondo, non vuole rinunciare nessuno. ma, posto fisso? garanzie?
qui è già tanto se si trova un'occupazione (e se sei donna è ancora più complicato, in particolar modo se in odor di maternità)!
insomma, il tempo indeterminato è la nostra chimera, come tutte le garanzie sindacali a lui connesse.
c'era un tempo però in cui con le amiche si discuteva se valesse la pena il posto fisso o se noi fossimo più predisposte per una flessibilità mondiale. ora invece quelle stesse amiche si sgolano nella difesa del tempo indeterminato.
certo, il nostro sistema ha istituito la flessibilità ma non l'ha mai 'accettata'. Tu sei flessibile, mentre io giaccio immobile sulla mia poltrona di marmo. Tu devi essere flessibile, ma per me sei solo carne da macello.
io sono e voglio essere flessibile, non voglio rinchiudere la mia vita in una gabbia in cui edificare una tana di cemento.
non voglio scaldare una poltrona, voglio costruirne di nuove.
 

giovedì 14 aprile 2011

La disfatta della giustizia italiana

Quello che è successo ieri sera nell'aula della Camera è stato uno spettacolo raccapricciante e decisamente triste. Vorrei riportare solo alcuni dei commenti dei vari esponenti delle forze politiche, espressi poco dopo i risultati dell'aula. A scrutinio segreto, si finisce alle 20h30 con un 316 a 288 (il primo emendamento palese era terminato con 310 a 294).
Il capogruppo Pdl Cicchitto: "non ci faremo processare nelle piazze, siamo una macchina da guerra, è la disfatta della sinistra...". Agguerrito.
Denis Verdini, coordinatore Pdl: "Conta che abbiamo tenuto bene per due giorni e dimostrato coesione".
Calogero Mannino, ex Udc, ora Misto: "il ritorno dell'immunità". Vagheggiamenti.
Umberto Bossi, Lega: "abbiamo votato e i numeri sono buoni".
Carolina Lussana, Lega: "Il processo breve ce lo chiede l'Europa".
Enrico Franceschini, Pd: "Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare".
Pierferdinando Casini, Udc: "Questa legge non reggerà le future verifiche sul piano costituzionale". Speranzoso.
Italo Bocchino, Fli: "E' triste vedere la nostra Camera bloccata alla presenza di tutti i ministri al solo fine di far prescrivere il processo Mills". Tragicamente ottimista.
Benedetto Della Vedova, capogruppo Fli: "Avete umiliato il Parlamento".
Fabio Granata, Fli: "Hanno demolito la giustizia, ma noi ricostruiremo il patriottismo". Patriottico
Antonino Lo Presti, Fli: "Per gli ex An ed ex forzisti, uniti nella devastazione del diritto, il tribunale sarà quello elettorale". Futurista.

mercoledì 13 aprile 2011

Il pomo della discordia.

Ricordo benissimo la storia del pomo della discordia, era una traduzione di latino o greco, non ricordo più, forse in entrambe le lingue. Era una storia con una morale, stuzzicava l'invidia tra belle donne (in questo caso dee), che si contendevano il pomo d'oro, l'ambito premio per la dea più bella.
Ebbene, riporto qui di seguito un mio articolo che ha dimostrato di partecipare al giochino: quale articolo sarà più bello (e più completo, meglio articolato, una migliore analisi della normativa ecc) sull'usura. Questo qui ha fatto venire i capelli bianchi a qualcuno, ma d'altronde a me sono venuti prima per i suoi articoli un po' sconclusionati e poco legati all'interpretazione della norma dal punto di vista del Legislatore, del giurista e non dell'attore di parte.


Chiara ScattoneLe piccole e medie imprese non riescono più a trovare credito presso le banche: perché? È colpa della crisi internazionale che ci sta travolgendo oramai da qualche anno e che, secondo gli auspici degli economisti, ancora non ha raggiunto il nostro Belpaese, oppure è colpa di un sistema bancario nazionale troppo chiuso su se stesso? Com’è possibile far sì che anche le piccole e medie imprese, il vero motore della nostra economia – ancora troppo saldamente legata a logiche familiari e nazionali – siano in grado di raggiungere il tanto agognato e necessario per la sopravvivenza, in alcuni casi, credito bancario? Le nostre banche sono istituzioni così macchinose e austere da non concedere tanto facilmente credito all’impresa, oppure il meccanismo nel quale spesso si precipita è talvolta perverso e manipolato? Forse, la risposta la si potrebbe trovare analizzando l’operato delle banche inglesi, che seguono il modello di sistema bancario islamico, unico sistema che, a oggi, non sembra aver ceduto il passo alla crisi internazionale. Certo è, comunque, che le imprese italiane hanno difficoltà ad accedere al credito bancario: gli istituti di credito non concedono più finanziamenti, se non a fronte della presentazione di garanzie solide e spesso sovradimensionate rispetto al capitale richiesto. Secondo quanto riportato dalle statistiche della Banca d’Italia nei suoi Bollettini Statistici pubblicati trimestralmente, il credito concesso alle imprese, ovvero gli ‘impieghi’ delle stesse, suddivise in tre differenti categorie 'industria', 'edilizia' e 'servizi', tra il quarto trimestre del 2008 e il quarto trimestre del 2010 non ha subito scostamenti di rilievo (i Bollettini Statistici sono facilmente reperibili sul sito della Banca d’Italia www.bancaditalia.it alla voce ‘Statistiche’). I dati sembrano dimostrare una situazione di richiesta e concessione del credito, sia per quel che concerne gli impieghi, sia per quanto riguarda i ‘finanziamenti per cassa’, che si mantiene pressoché stabile e costante negli ultimi tre anni. Ma cos’è cambiato dal punto di vista normativo in questi ultimi anni?

L'introduzione della regolamentazione bancaria internazionale di Basilea 2
Nei primi mesi del 2007 è entrato in vigore il nuovo accordo sottoscritto dal Comitato di Vigilanza sulle banche, denominato Basilea 2. Tra il 2007 e il 2008 – la Direttiva comunitaria prevedeva per gli istituti una proroga di un anno per l’adeguamento completo alla nuova disciplina – le banche italiane e internazionali hanno dovuto necessariamente adattarsi alle nuove direttive. Non tutti i soggetti sono apparsi favorevoli ed entusiasti della riforma, che ha riguardato principalmente gli strumenti interni di controllo e di stabilità del patrimonio, richiedendo requisiti patrimoniali più solidi. Tra le nuove regole introdotte dall’accordo vi sono, dunque, l’introduzione di nuovi sistemi di monitoraggio interno dei rischi creditizi, la rilevazione e la auto-valutazione dell’adeguatezza patrimoniale (ICAAP) – requisiti previsti dal “secondo pilastro” dell’accordo – e i requisiti di trasparenza informativa nei bilanci di esercizio, così come introdotti dal “terzo pilastro”. La vigilanza prudenziale è, allora, l’aspetto più importante, e soprattutto la richiesta di una maggiore e migliore capacità di misurazione e di gestione dei rischi del sistema bancario. In questo ambito forse è rinvenibile il primo elemento di contrasto con la difficoltà di accesso al credito delle imprese nostrane. Miglioramenti nel calcolo dei rischi e nella gestioni degli stessi, comportano indubbiamente una maggiore attenzione alla composizione del proprio bacino di clientela. Ma questa ‘selezione’ più attenta del cliente è foriera di un’incidenza negativa sul sistema imprenditoriale? La logica detterebbe una risposta contraria: una crescente e costante attenzione dei meccanismi di rischio a fini prudenziali non esclude affatto la possibilità per la banca di migliorare la propria gestione e la propria proposizione commerciale. Anzi, in quest’ottica non vi è alcun riferimento all’accesso al credito, semmai l’accordo, prevedendo il rafforzamento gestionale dei rischi di settore, obbliga tutti i soggetti del sistema bancario ad adeguarsi strumentalmente proprio per garantire una corretta analisi degli stessi. Il sistema imprenditoriale, o più correttamente il bacino di clientela di ogni singolo istituto di credito, dal 2008, proprio in ragione di tale adeguamento regolamentare, è stato soggetto a una valutazione da parte della banca di riferimento. Ogni impresa è stata dunque classificata secondo una scala di valore o rating, che ne ‘giudica’ lo stato e le prospettive future. Basilea 2 dunque ha introdotto, tra l’altro, un nuovo modo di ‘fare credito’ e di valutare il credito, che non si limiti più solamente alla conoscenza con l’imprenditore o alla presentazione di garanzie reali o atipiche (immobili o fidejussioni), bensì che concerni gli aspetti imprenditoriali previsionali futuri. Nei fatti, la documentazione da presentare alla banca non è cambiata, si sono modificati gli aspetti (imprenditoriali e di business) valutati dall’istituto nell’analisi sulla bontà e affidabilità creditizia del cliente.

Come si concilia con le nuove regole bancarie un sistema economico e imprenditoriale di stampo familistico?
Ecco forse il punto di scontro tra impresa (italiana) e banca. È il nostro sistema aziendale a non essersi dunque adeguato ai nuovi profili regolamentari? La nostra economia viene definita ‘familistica’, ovvero costruita secondo logiche che riprendono quelle familiari. La maggior parte delle nostre imprese – tra cui le stesse che si fregiano nel mondo del marchio ‘made in italy’ – sono organizzate prevalentemente secondo lo schema e la logica commerciale: di fatto gestite in prima persona dal loro stesso fondatore o dai suoi stretti familiari. Sono veramente poche pertanto quelle imprese che possono vantare una buona ed efficiente conoscenza dei sistemi finanziari, un’inadeguatezza questa che comporta logicamente una difficoltà a gestire il rapporto con il credito. La logica del ‘padrone’ che gestisce un impresa nazionale si discosta da quella invece auspicata nell’Accordo di Basilea 2. L’uso del credito bancario diviene così un utile strumento, non tanto di sostentamento, quanto di sostegno agli investimenti, strumentali od operativi, che debbono essere necessari allo sviluppo dell’attività imprenditoriali e non alla gestione corrente dell’azienda. Il nocciolo della questione potrebbe essere proprio questo, è decisivo cambiare la mentalità dell’imprenditore, l’esposizione nei confronti delle banche non può essere l’unico strumento con il quale portare avanti l’attività, ma dovrebbe divenire il mezzo per ampliare la propria impresa e affrontare il business. Tale ragionamento, però, non tiene conto di tutte quelle disfunzioni economiche – quali sono stati il passaggio all’euro e la crisi economica di questi ultimi 10 anni – che ricadono negativamente sulla capacità di acquisto dei consumatori e che quindi prescindono dalla capacità imprenditoriale delle imprese stesse. Una situazione che in Italia sta portando sul lastrico molte imprese o nel peggiore dei casi ha costretto alla chiusura molte attività. Nella forbice della stretta economica appare sempre più evidente un’endemica mancanza di liquidità che si concretizza in scadenze di pagamenti non rispettate anche da parte di committenti che fino ad oggi problemi non sembravano averne. Ne deriva un effetto domino a catena che penalizza l’intero sistema economico. La situazione è ulteriormente appensantita da un’assenza di previsioni su cosa accadrà in futuro che impedisce alle imprese di organizzare piani di rientro piuttosto che di sviluppo. In tutto ciò le banche, che a dire il vero sarebbero le uniche a godere del vantaggio di interessi di sconfino pagati profumatamente, sono irrigidite dalle nuove direttive comunitarie e non garantiscono laddove non hanno garanzie.

La crisi economica e la risposta del G20
In una situazione già molto critica, che sembrerebbe senza via di uscita, ulteriori direttive introdotte con Basilea 3 sono destinate a determinare gli equilibri fra banche e imprese. Il Comitato di Vigilanza sulle banche il 26 luglio e il 12 settembre 2010 ha approvato le nuove linee portanti della riforma, così come richiesto su indicazione del  Financial Stability Board dai leader del G20. Le nuove regole di Basilea 3, ratificate nel novembre 2010 dai Capi del G20 a Seoul, concernono principalmente la prosecuzione del percorso di rafforzamento della qualità e della quantità del capitale bancario iniziato nel 2007/2008 con l’accordo precedente. Verranno introdotti, nel corso del periodo transitorio che sfocerà con l’obbligatorietà dell’adeguamento dal gennaio 2013, nuovi standard patrimoniali, che avranno lo scopo di attenuare i possibili effetti prociclici delle regole prudenziali e di assicurare un controllo più attento del rischio di liquidità. Il nuovo accordo di Basilea 3, così come quello precedente segue la linea ben precisa della solidità patrimoniale del sistema bancario nel suo complesso e dunque delle singole istituzioni bancarie e finanziarie nel dettaglio. Entrambe le riforme perseguono l’obiettivo di rendere più solido il patrimonio – ma allo stesso tempo anche più liquido, in maniera da affrontare eventuali squilibri di liquidità che possano provocare possibili instabilità dell'intermediario –, garantendo anche la possibilità di accantonare una sorta di ‘capitale cuscinetto’ aggiuntivo quale riserva preventiva negli eventuali periodi di ‘surriscaldamento del credito’. L’esperienza dei mutui subprime e del crollo finanziario partito dagli Stati Uniti e dilagatosi in tutto il Vecchio Continente ha probabilmente fatto sì che il G20 richiedesse ulteriori riforme strutturali per garantire e tutelare non solo la stabilità del mercato economico-finanziario interno, ma soprattutto per agevolare una fase di crescita necessaria per la totale ripresa di tutto il sistema. I requisiti e i criteri diverranno più severi, ma tale severità sarà diluita nel tempo proprio per non compromettere la ripresa e per assicurare all’economia (nazionale) un regolare afflusso di capitale e di credito. Malgrado tutte le suddette rassicurazioni, però, fin da subito le banche e le aziende sono scese sul piede di guerra. Nella lettera dell’ex a.d. di Unicredit Alessandro Profumo (pubblicata anche su www.corriere.it) inviata alla vigilia dell’approvazione dell’Accordo al presidente della Bce, Trichet, e al presidente della Commissione europea, Barroso, si evidenzia una preoccupazione vibrante sugli effetti che le nuove regole potrebbero comportare all’intero sistema, sulla crescita occupazionale e industriale di tutta l’Europa. I nuovi criteri patrimoniali potrebbero difatti fare aumentare i costi per la raccolta delle banche e conseguentemente il costo del denaro stesso per l’intero sistema, decretando così un ulteriore freno alla crescita. Del futuro, quindi, continua a non esservi certezza nè su come la nuova riforma introdotta dall’accordo di Basilea 3 – una riforma quasi prettamente patrimoniale e prudenziale – inciderà sulla struttura bancaria e imprenditoriale italiana e internazionale. Sempre che, da qui al 2013, non intervengano nuovi e inattesi elementi, non in ultimo la ricomparsa di un certo tipo di ‘sfrontatezza’ e della ‘spregiudicatezza’ nelle logiche finanziarie quali quelle che hanno condannato in questi ultimi anni l’intero sistema ad una crisi pandemca estremamente pervasiva che l’Italia per ora ha solo sfiorato e per le quali è stato necessario fissare le nuove regole che oggi ci penalizzano tanto.

La nuova regolamentazione bancaria introdotta dall'accordo di Basilea 3
Il Comitato di Basilea ha lanciato una revisione delle regole che gestiscono il sistema bancario mondiale. Sull'onda del fallimento della regolamentazione precedentemente – entrata  a pieno regime nel 2008 – determinato dalla crisi sistemica internazionale che ha sconvolto le economie di tutto il mondo occidentale, il G20 ha dato avvio su indicazione del Financial Stability Board (*) la consultazione per una nuova regolamentazione dei mercati che fosse più stringente e che garantisse criteri di vigilanza prudenziale più severi. La riforma così studiata è stata approvata dal G20 di Seul nel novembre 2010, ma la sua introduzione nel sistema bancario avverrà con gradualità solo nel 2013. Gli aspetti principali di tale intervento riguardano:

- la definizione di requisiti più rigorosi in termini di capitale 'migliore' da utilizzare nei casi di crisi (il Common Equity Tier 1 al 4,5 per cento in rapporto alle attività di rischio);

- la creazione di una riserva di 'capitale cuscinetto' (o Capital Conservation Buffer) pari al 2,5 per cento del CET 1, da alimentare nei momenti di prosperità e sfruttare in quelli di crisi;

- l'accantonamento di un ulteriore capitale di riserva, Countercyclical Buffer (pari al massimo all'1,5 per cento del Tier 1) da alimentare durante i cicli positivi e dunque più rischiosi, in maniera da contenere il rischio nel caso in cui questo si manifestasse;

- l'introduzione di una leva finanziaria (Leverage Ratio) con il compito di limitare il livello in indebitamento nelle fasi di eccessiva crescita e di supplire ad eventuali carenze nel sistema dei controlli interni nella valutazione dei rischi.

Il fallimento degli accordi di Basilea 2L'accordo c.d. di Basilea 2 (il primo accordo emanato dal Comitato di Basilea sui regolamenti internazionali bancari venne redatto nel 1988) è un accordo internazionale che regola e stabilisce dettagliatamente i requisiti patrimoniali che ciascun istituto di credito deve garantire. La logica che muove tale regolamento è la seguente: a un maggior rischio deve necessariamente fare seguito un maggior accantonamento di riserve patrimoniali cui fare ricorso nel caso di periodi di crisi. Lo scoppio della crisi economica internazionale ha dimostrato che probabilmente le regole precedentemente sottoscritte nell'ambito di Basilea 2 non erano state in grado di fare fronte ad emergenze di questo genere. Il rigore con cui erano state composte e spesso criticate dagli operatori del settore non è stato sufficiente. Nel dettaglio, l'Accordo di Basilea 2 era organizzato secondo tre pilastri:

1. l'adozione di criteri patrimoniali minimi: per contrastare il rischio di credito mediante l’adozione di strumenti di mitigazione e di controllo interno per la valutazione dei rischi di credito di controparte e di operazione (sistema di internal auditing) e per contrastare i rischi operativi.

2. il controllo da parte delle Banche centrali, le quali disporranno di una maggiore autonomia e discrezionalità nella valutazione dell'adeguatezza patrimoniale degli istituti controllati. A tal fine le Banche centrali dovranno assicurarsi che ciascun soggetto sottoposto a vigilanza sia dotato degli strumenti idonei, delle valide procedure interne per la valutazione della propria adeguatezza patrimoniale (ICAAP).

3. la disciplina del mercato e la trasparenza. Sono previste a tal fine regole precise per la trasparenza delle informazioni sui livelli patrimoniali, sui rischi e sulla gestione degli stessi al pubblico.

Tratti da periodicoitalianomagazine.it

Report e i direttori del personale

E noi che ci eravamo fatti un'idea sbagliata...
Se le aziende posssono 'spiare' le nostre abitutidini attraverso le informazioni che immettiamo nella galassia dei social network, non è sempre detto che questo impicciarsi non sia a fin di bene.
è una delle notizie di stamattina (subito dopo la più succosa rivelazione di due 18enni  "alle 'eleganti' serate di Arcore") di Repubblica.
7 direttori del personale su 10 dall'inizio di questo anno hanno fatto uso del web per rintracciare e recuperare informazioni sui candidati che stavano per assumere. Sbagliato? Può essere. Una forma di tutela? Forse. Curiosità? Può darsi. Certo è che spesso durante i colloqui non si dice tutta la verità (e va bene) e talvolta si rischia di omettere informazioni para-professionali che si ritengono poco valide o poco interessanti per un futuro lavorativo e che invece, se e quando scoperte tramite il web, contribuiscono positivamente nella scelta di un candidato.
D'altronde il rapporto è reciproco, Magda. Chi, prima di andare ad un colloquio, non sbircia per benino tutte le info sul futuro probabile datore di lavoro? E allora, se noi abbiamo il diritto di sapere dove vogliamo andare a lavorare, probabilmente anche l'azienda avrà diritto (o perlomeno curiosità e coscienza) di sapere chi si sta mettendo dentro casa.

martedì 12 aprile 2011

OTTO E MEZZO 11/04/2011 - La lucciola d'Egitto

Strategia di Lisbona... ma esiste?

Se si leggono i documenti della Strategia di Lisbona, si capisce come il nostro governo non ha praticamente fatto nulla di quello che era stato previsto e sottoscritto. Aveva ragione Travaglio ieri ad Otto e mezzo, l'Italia ha perso il suo slancio e la sua serietà in Europa dai tempi di De Gasperi. Oggi siamo decisamente poco credibili... non crediamo noi stessi a quello che diciamo?!

l'agenda di Lisbona e le intenzioni del governo

Certo, mentre noi donne ci arrovelliamo il cervello nel tentativo di escogitare nuovi 'escamotage' per eliminare o perlomeno ridurre sensibilmente le disparità di genere che sussistono e sono ben radicate in questo nostro strano Paese nel mondo del lavoro e nella società. Mentre noi scendiamo in piazza e gridiamo che abbiamo una dignità che va rispettata e dei diritti che debbono essere tutelati. Mentre noi combattiamo tutti i giorni per la nostra parità e per un'uguaglianza che nel mondo del lavoro ancora non c'è. Mentre noi facciamo tutto questo, c'è qualcuno in questo strano Paese che dice:
1. "Pagai Ruby perché non si prostiuisse". La redenzione di una prostituta minorenne e nipote di Mubarak?
2. "Mi chiedo se abbia senso restare nell'Unione Europea". UE unico sostegno credibile per questo nostro strano Paese.
Se non fosse tragico sarebbe estramamente comico.
Ma poi, fino all'altro ieri in Parlamento non si è sostenuto e dibattuto alacremente che mister B. non fosse a conoscenza del reale mestiere di Ruby? E perché mai, egli ieri ha affermato il contrario? Allora se lo sapeva perché ha utilizzato il verbo "pagare" che tanto disturba la vice ministro Casellati e non il verbo ben più 'delicato' di "donare"?

lunedì 11 aprile 2011

Post scriptum

Facebook mi ha bloccato la condivisione del pezzo sulle donne per motivi di contenuto "non gradito" o cose simili. Mah, la puntata di Report è stata piuttosto illuminante.

Evoluzionismo e islam?


Durante l’ultima lezione del venerdì un mio studente mi ha chiesto: “prof, esiste la teoria dell’evoluzionismo darwiniano nell’islam?”.
Sono un po’ caduta dalle nuvole. È vero che avevo appena annunciato alla classe che il mese prossimo faremo una lezione in comune con la prof di storia della scienza per cercare di discutere sulla questione della bioetica nell’islam, ma darwin e l’islam sinceramente non ci avevo mai pensato. E allora, ho cercato di riflettere brevemente per poter rispondere almeno parzialmente al mio studente. Il risultato? Cerchiamo di riflettere ora, così, a mente libera.
La teoria dell’evoluzionismo ovviamente nell’epoca classica dell’islam era totalmente sconosciuta. L’islam nacque nel VII secolo dopo Cristo. L’ègira (l’anno zero dell’islam, l’anno della trasmigrazione della comunità muhammadica da Mecca a Medina) è il 622. Riflettiamo ancora. La prima rivelazione afferma: “Grida nel nome del tuo Signore, che ha creato, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue!” (sura XCVI, 1-2). L’uomo è dunque stato creato da un grumo di sangue. Un primo elemento interessante per cercare di rispondere alla nostra questione. Evoluzionismo, grumo di sangue. Adamo ed Eva sono citati nel Corano, la loro storia, il loro ‘tradimento’ nei confronti della benevolenza divina è presente, anche se mostra alcune diversità con il racconto biblico. Eva non ha indotto Adamo a mangiare il frutto proibito, bensì Adamo ad essere tratto in inganno da Iblis a mangiare (insieme ad Eva) dall’albero dell’eternità. Adamo ed Eva non rappresentano i progenitori della specie umana, la loro figura è un’allegoria religiosa. Dio ha creato il mondo per l’uomo, perché questi è il vicario di Dio in terra. E l’uomo è nato da un grumo di sangue. Ci stiamo forse perdendo?

giovedì 7 aprile 2011

Donne che escono dal mondo del lavoro dopo il primo figlio. Ravenna

Solo qualche piccolo dato.
Ieri pomeriggio a Ravenna, nella sala presso la sede della Banca Popolare di Ravenna, si è tenuta la presentazione del libro di Paola Profeta, Donne in attesa. La presentazione è stata organizzata dalla Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari) e dalla Camera di Commercio ravennate.
Al termine della presentazione, l'assessore alle pari opportunità del comune ha sciorinato qualche dato interessante. Eccoli.
In Italia in media solo 12,7% dei bambini va al nido (in Campania solo l'1%, in Emilia Romagna circa il 26%), contro la previsione dell'Agenda di Lisbona del 33%. La media europea è ovviamente più alta.
Colpa delle politiche assistenziali nazionali?
Certamente se pensiamo che quest'anno il governo ha azzerato il Fondo per il Piano Nidi.
Per fortuna qualche regione va bene e ad esempio il modello nido dell'Emilia Romagna rappresenta un modello di studio anche nelle facoltà universitarie (ad es. in Bocconi).
Nel 2010 nel comune di Ravenna, 147 donne con la nascita del primo figlio hanno deciso di lasciare il proprio lavoro. L'uscita del mondo del lavoro, che per lo più avviene dopo il primo figlio, è nella maggior parte dei casi definitiva.
Le 147 donne di Ravenna avevano un età media compresa tra i 26 e i 35 anni e lavoravano prevalentemente nel commercio e nell'industria.
Le motivazioni dell'abbandono:
1- mancato accoglimento nei nidi pubblici
2- mancanza dei parenti vicini
3- elevata incidenza dei costi per l'assistenza al neonato
4- cambio azienda
5- mancata concessione del part-time (provvisorio)

C'è molto ancora da fare. Ma quando si comincia?

mercoledì 6 aprile 2011

Donne e lavoro


Dal 2015 in tutti i Consigli di Amministrazione delle società italiane dovranno prendere parte un numero prestabilito di donne. Dal 2015 entrano ufficialmente in vigore le ‘quote rosa’ dell’economia. Un Ddl del Senato approvato il 14 marzo scorso ha stabilito che le donne dovranno partecipare almeno per il 30 per cento alla vita economica delle aziende italiane. I tempi per l’entrata in vigore del decreto sono lunghi, le aziende e i loro dirigenti hanno così la possibilità di abituarsi all’idea che fra qualche anno dovranno cedere il passo e la sedia ad una signora. Ma era realmente necessaria questa manovra politica? Le opportunità di una carriera, di una riuscita professionale per le donne sono cose talmente rare e talmente distanti che quando queste avvengono ci sembrano un eccezione e quasi un miracolo.
I dati sulla disoccupazione giovanile, ovvero dei giovani tra i 15 e i 24 anni – ma non vi è l’obbligo scolastico? – è in continuo aumento, l’Istat afferma che alla fine del 2010 il dato si aggirava sul 29 per cento – a febbraio 2011 questo dato è sceso al 28,1 per cento. L’elemento che però preoccupa maggiormente non è quello sulla disoccupazione giovanile, i ragazzi a 15 anni vanno per lo più ancora a scuola, ma quel che riguarda l’inattività, le persone che scelgono, consapevolmente o come scelta obbligata, di rinunciare alla ricerca di un lavoro. Gli inattivi sono aumentati dello 0,1 per cento a febbraio rispetto al mese precedente, raggiungendo un tasso complessivo del 38 per cento – tutti i dati sono tratti dal sito dell’Istat. I dati statistici poi non prendono in considerazione alcune realtà sociali cui spesso siamo noi stessi ad essere i testimoni più attendibili. È la realtà della vita quotidiana, delle persone che ci circondano, con le quali veniamo in contatto durante la giornata, che rappresentano più da vicino un microcosmo completo della società italiana. Tra le tante storie cui siamo attenti osservatori, un dato è certamente quello più significativo, perché denota un cambiamento che si sta verificando in parte del nostro Paese: l’inattività femminile. O per meglio dire, la rinuncia, sofferta, alla ricerca di un posto di lavoro. Il più delle volte questa scelta scaturisce dopo l’ennesimo licenziamento, dopo la scadenza del contratto a progetto, del tempo determinato, dell’interinale. Ci si stanca di cercare di nuovo, mettersi ancora in gioco, abbassare nuovamente la testa e accettare tutto quello che offre il mercato. Il mercato oggi poi offre molto poco e se non si ha la necessità di ‘dover mangiare’, allora sembra più facile smettere un poco alla volta di inviare il curriculum, di rispondere agli annunci di lavoro. Tanto poi, non ti risponde mai nessuno e a questo punto non serve neanche più. Il lavoro lo trovi se sei molto fortunato o se sei molto sponsorizzato. La malattia più diffusa in questo nostro strano Paese è quella del nepotismo, la famiglia patriarcale si è talmente radicata nella nostra indole e nella nostra mentalità, che anche al di fuori delle mura domestiche i rapporti subiscono le stesse distorsioni, gli stessi atteggiamenti. Ricerchiamo perversamente un padre che ci guidi, anche nel mondo del lavoro, anche al di fuori della nostra famiglia; un padre che si prenda cura di noi, che ci indichi il cammino, ci spiani la strada verso ‘la felicità’.
Il lavoro è realmente la felicità? È la domanda cui mi ha sottoposto una mia amica, inattiva ma che aiuta la madre nella gestione della loro piccola attività commerciante. Non si è altrettanto felici non lavorando, ma appagando la propria vita nell’ambito intimistico, personale, familiare. La professione rappresenta l’agapè? La domanda nasconde un dubbio, fors’anche un segreto. Si è soddisfatti di se stessi, e dunque degli altri, solo quando si ha una professione appagante e magari anche ben retribuita? Non credo la risposta sia positiva, credo ugualmente che l’insoddisfazione personale possa essere generata dalla frustrazione di un lavoro che ai nostri occhi appare misero o dall’assenza di un lavoro e la difficoltà di trovarne un altro.