"Un caffé per me e per la mia coscienza"

mercoledì 24 agosto 2011

La manovra economica di luglio e di ferragosto hanno "assestato un colpo da serial killer"

Più o meno si apre con questa metafora l'editoriale di quest'oggi di Famiglia Cristiana (pubblicato in anteprima ieri, 23 agosto).
Le manovre del governo invece di essere strutturali e di cercare una via risolutiva al disavanzo pubblico e alla crisi economica che ci sta consumando, sono rivolte sempre e solamente contro i "soliti noti" delle tasse: le famiglie, i dipendenti pubblici e privati e i piccoli lavoratori autonomi (perché anche loro, in tanti pagano le tasse).
Ed ecco che anche la Chiesa si ribella e accusa i politici cattolici di "stare alla finestra, insignificanti e privi di idee". Ma sarà così vero? Perché a me sembra che tra i sostenitori della Chiesa (cattolica) e del famoso Family day ci fosse quasi tutta la classe dirigente attualmente al potere e non certo altri. Anzi, se non ricordo male sono proprio i nostri governanti di oggi a inchinarsi a prelati e cardinali veicolando le scelte dello Stato (pubblico e laico, dunque di tutti) a logiche cristiano-cattoliche che poco rispondono agli ideali costituzionali di laicità e libertà di religione e di pensiero.
Famiglia Cristiana si lamenta e ne siamo tutti contenti, purché però ognuno guardi la trave nel proprio occhio, prima di analizzare il sassolino dell'altro.
Le manovre e le intenzioni economico-finanziarie future di questo governo sono la dimostrazione di quanto poco sia di interesse lo stato dello Stato e quanto invece contino di più le logiche personalistiche e patrimonialistiche di pochi. L'opposizione si sta muovendo, forse non troppo omogeneamente, ma sta facendo sentire la sua voce.
Bisognerebbe cambiare i vertici? è molto probabile.
La borsa italiana continua a crollare, sotto attacco oggi sono le banche, gli enti creditizi, i custodi del debito pubblico italiano. Se non è più possibile prendersela con le obbligazioni di Stato (sotto l'ala protettiva della Bce), allora all'arrembaggio dei titoli delle banche. E via il crollo! Bisogna preoccuparsi? Io direi di sì. Ma la soluzione ci sarebbe, c'è.. se solo avessimo una classe dirigente capace di prendere decisioni in linea con quanto richiesto dall'Europa e con quanto realmente necessario per il Paese.
Gli annunci passati (a borse chiuse) del capo del governo hanno sortito effetti devastanti, non tanto per la malasorte del singolo, quanto per l'inconsistenza delle parole e dei fatti proposti.
E' necessario proporre riforme concrete, reali, strutturali (la parola sarà di moda, ma resta pur sempre incomprensibile ai più) e attuarle, non lasciarle nel dimenticatoio (tanto gli italiani, si sa, hanno memoria breve).
Così non possiamo più andare avanti, siamo giunti al capolinea. Ci stiamo arrabbattando in una danza del cigno poco credibile e definitiva, qualcuno ne prenderà atto?

Leggi "Quei tesoretti intoccabili", editoriale del 23 agosto 2011 di Famiglia Cristiana.

martedì 23 agosto 2011

Le donne, l'ambiente e la green economy

E' stato recentemente pubblicato una ricerca promossa dal Comitato per la Promozione dell'Imprenditoria femminile e la Camera di Commercio di Milano dedicata a Donne e Ambiente. Le donne sono le protagoniste dei nuovi atteggiamenti di sostenibilità ambientale? La ricerca si dedica ampiamente a descrivere e ripercorrere i diversi usi (e costumi) delle donne intervistate, imprenditrici, pensionate, professioniste, impiegate, ricercatrici, insegnanti, casalinghe e disoccupate.
Nel loro complesso le donne sono più attente all'ambiente e cercano nei loro comportamenti di affrontare il problema dello "spreco" delle risorse con intelligenza, o meglio con parsimonia e forse un poco di moda.
Le correnti del momento, che siano esse politiche, sociali, culturali o solo frivole, stanno spostando da diverso tempo l'attenzione su prodotti e comportamenti "bio".
E allora, si sa, sono le donne che tengono in mano i cordoni della borsa domestica, sono loro che decidono cosa, quanto e in che maniera spendere e utilizzare le risorse economico-finanziarie della famiglia. Per cui oggi non ci sorprende molto scoprire che sono veramente le donne, forse più informate, più impegnate socialmente e politicamente, più "benestanti" a seguire e perseguire modelli comportamentali più attenti al risparmio energetico e allo spreco delle risorse naturali.
Ci sorprende invece leggere, su suggerimento di un'amica, un lavoro pubblicato dall'Isfol nel mese di gennaio 2010 (ci sono arrivata un po' tardi, ma il motto non rincuorava il ritardatario con "meglio tardi che mai"?!) da cui emerge come sia tuttora in atto un boom della green economy e dei corsi di specializzazione universitari, para e post universitari nei settori ambientali. E sono le donne a farla da padrone!
Se è dunque vero che sono circa 80% gli studenti che nei primi sei dal termine degli studi riescono a trovare un'occupazione in ambito ambientale, tra coloro che ricoprono ruoli più qualificati il 61,7% sono donne. Eccolo il dato significativo e che probabilmente non è un caso. Sono le donne a essere più attente ai consumi e dunque al risparmio, anche energetico e ambientale, e sono sempre le donne che dimostrano una maggiore propensione verso la società e gli altri dedicandosi, anche lavorativamente, al mondo della green economy.
Un ragionamento semplicistico? Può essere.


mercoledì 27 luglio 2011

Alemanno e la violenza contro le donne

E' stato distribuito in 10 mila copie nella metro di Roma il "Vademecum per la tua sicurezza. Sicurezza, un lusso che noi donne vogliamo permetterci". Un manuale per donne sole che abitano e girano nella Roma Gothan City di Alemanno. Stupri, violenze e minacce, una città oscura, pericolosa e abbandonata a se stessa, dove alle donne viene consigliato di "non indossare abiti appariscenti" se si viaggia in metro la notte. Una città, Roma, che viene descritta come un luogo non sicuro, anche se governato dall'uomo che in campagna elettorale si è promosso come l'uomo della sicurezza.
Ed è stato proprio l'uomo della sicurezza a vincere le elezioni, cavalcando il terrore del tentato stupro (sventato da un suo sodale) in una stazioncina alle porte della città poche settimane prima delle elezioni.
Oggi però le cose non sembrano essere andate come avrebbe voluto Alemanno, la "sua" città sembra essere abbandonata a se stessa e agli istinti più biechi della natura umana. La sporcizia, l'arroganza, l'ignoranza, la fobia dell'altro e dell'estraneo, la violenza contro la donna e contro gli immigrati stanno dilagando, lasciando per le strade solo cartacce e stracci.
Roma è una città che ha perso il suo fascino, i suoi tramonti sembrano sbiaditi e non quella meraviglia che solo a Roma si poteva ammirare.
Roma è in pieno declino, soprattutto Roma sta perdendo se stessa e i suoi cittadini se deve chiedere alle sue donne di nascondersi, di munirsi di un braccialetto anti-violenza, di girare bardate e "velate" per non dare adito all'uomo-maschio di violentarle, di tenere sotto mano il cellulare impostato con i numeri della polizia, di non girare di notte in luoghi bui e di accertarsi che ci sia sempre un posto "sicuro" nelle vicinanze cui chiedere aiuto, una campanello di uno sconosciuto cui bussare.
Questa è paranoia, è follia ma soprattutto è la dimostrazione di una mancanza di cultura. Sono queste le operazioni sgradevoli di un marketing disincentivante, fobico che invoca al male assoluto che non sempre esiste.
Stasera ci sarà una grande manifestazione in piazza Trilussa per dire no al "metodo Alemanno", per dire no alla violenza psicologica e paranoica, per dire no a questo vortice perverso in cui si vorrebbe rinchiudere tutte le donne.
http://www.unita.it/polopoly_fs/1.312822.1310465832%21/menu/standard/file/Vademecum1.pdf

martedì 19 luglio 2011

Il "rottamatore" super-giovane Renzi e gli impiegati pubblici di fantozziana memoria

E' di questi giorni la notizia sui quotidiani fiorentini e nazionali dell'ultima boutade del sindaco rottamatore Matteo Renzi. Il sindaco super-giovane, oramai non più giovane, da sempre criticato per le sue campagne donchisciottiane qualche giorno fa se l'è presa con i dipendenti del suo Comune accusandoli di "indossare il cappotto già un quarto d'ora prima di uscire"!
Ma da qualche settimana l'aria era diventata irrespirabile per i poveri dipendenti comunali: da dieci giorni il sindaco aveva introdotto la draconiana imposizione di timbrare il cartellino a ogni sigaretta.
E se il sindacato, non certo vicino al sindaco, lo accusa di essere un democratico del "decido solo io", questa volta il sindaco tutti torti forse non ce l'ha.
Le motivazioni del suo sfogo sono chiare e certamente condivisibili (ovviamente per chi dipendente pubblico né a tempo indeterminato è): veder sfilare ogni giorno nei cortili del Comune i dipendenti fumatori può essere spiacevole, soprattutto se si guarda alla realtà sociale del Paese intero. Giovani disoccupati, cassa integrazione galoppante, imprese a rischio o già fallite ed ex dipendenti alle prese con gli aiuti statali che non arrivano mai, anzi. E poi c'è il problema della rappresentanza sindacale, della pensione che in molti, in troppi non avranno, anche se continuano a pagare ogni mese l'Inps.
E' indubbio vi sia un malessere sociale molto ampio e probabilmente i dipendenti comunali dovrebbero essere tra i primi a dare il buon esempio. Sono molti quelli che lo fanno, da sempre, ma altri invece talvolta assumono più atteggiamenti fantozziani e non solo nel pubblico. Si è spesso convinti che un contratto a tempo indeterminato rappresenti più che un'assunzione (a vita), un'adozione, un vitalizio che manteniamo qualunque cosa succeda, perché tanto non ci possono mandare via, perché tanto ci sono i sindacati che ci proteggono.
Tutto giusto? Non troppo. Se il lavoro è un diritto è al tempo stesso anche un dovere (personale, aziendale, sociale), in particolar modo in questo periodo di incertezza dove chi ha un lavoro (garantito e assicurato) dovrebbe pensare un po' di più al proprio vicino che invece è a casa o alla ricerca disperata o che ha perso la voglia e la speranza.
E i sindacati? Renzi chiede loro di ridursi le ore di permesso, è così paradossale? Perché? Anzi sembrerebbe giusto, troppo spesso i sindacalisti appaiono come quelli che fanno poco e nulla e che approfittano della loro posizione, politica, per svicolare dalle responsabilità del proprio lavoro, perché tanto loro di certo il posto fisso non lo perdono. E poi, oramai la loro rappresentanza è decisamente scarna e poco rappresentativa della classe lavorativa dell'Italia. Gli iscritti sono prevalentemente pensionati e dipendenti a tempo indeterminato, perché dei determinati, degli atipici, delle partite iva (che non sono ricchi evasori professionisti, ma giovani cui si chiede la partita iva per avere meno garanzie e meno stipendio, ma paradossalmente ben più tasse) interessa poco, molto poco e poco o nulla si può fare per loro. Nono sono garantiti? Non prenderanno mai una pensione? Io intanto continuo a fumare la mia sigaretta in giardino e a fare la coda col cappotto per timbrare il cartellino!

mercoledì 15 giugno 2011

Il boom delle imprenditrici straniere in Italia.

http://ravenna.fattoredonna.it/2011/06/15/quasi-in-centomila-il-boom-delle-imprenditrici-straniere-in-italia/

E' uscito qualche giorno fa uno studio condotto dall'Osservatorio sull'evoluzione dell'imprenditoria femminile di Confcommercio e Censis che ha stimato in quasi 100 mila le imprenditrici straniere in Italia.
In testa ci sono le cinesi, cui seguono le rumene, le svizzere, le marocchine e le tedesche.
Il dato più significativo è la presenza di più di un 13% di ragazze sotto i 29 anni.
Le imprenditrici straniere in Italia sono le principali interpreti del cambiamento in atto ormai da diverso tempo nel nostro Paese e probabilmente saranno loro ad agevolare il processo di consolidamento di una società multietnica e interculturale.
Le imprese femminili straniere hanno dimostrato di riuscire a crescere anche in questi ultimi due anni, gli anni della crisi economica, gli anni che hanno scombussolato il nostro sistema. Le donne sono il motore dell'economia e le donne straniere stanno dimostrando tutto il loro valore, anche in Italia, anche in un Paese che ancora non le riconosce cittadine.

Islam e democrazia

Islam e democrazia sono conciliabili? L’islam è un sistema di valori di origine divina, in cui din wa dawla, ovvero religione e Stato, sono elementi inscindibili tra loro. La democrazia è una forma di Stato secondo la quale è la volontà del popolo a essere decisiva per l’esercizio del potere costituito. Nell’idea di democrazia non soggiace alcun elemento che possa rifarsi al sentimento religioso. La democrazia è per sua natura stessa una forma, quantunque anche filosofica, totalmente laica. Il dubbio, la nostra domanda, sarebbe pertanto così saziata. L’islam non può concepire, proprio per la sua duplice veste, religiosa e statuale, una qualsivoglia struttura di potere che non contempli un’essenza divina. Il complesso rapporto esistente tra l’islam e la democrazia o l’idea di rappresentatività del popolo, della maggioranza dei residenti in un determinato Stato, va ricostruito, ripercorrendo alcune tappe essenziali della storia del mondo arabo-islamico e aiutandoci in tale percorso a ritroso con alcuni dei termini arabi più significativi. Alla morte del profeta Muhammad nel 632 d.C. si aprì la questione della successione al potere. Il Profeta incarnava nella sua stessa persona sia l’autorità temporale, era khalifa ovvero capo politico della comunità, sia quella religiosa, in qualità di Inviato di Dio ricopriva anche il ruolo di imam (colui che guida la preghiera). Muhammad non aveva designato formalmente alcun successore e divenne quasi scontato ritenere degni di tale incarico i compagni che fin dall’inizio e più fedelmente avevano seguito l’epopea del Profeta. Il periodo che seguì la morte di Muhammad venne denominato il periodo dei Califfi Ben Guidati, ovvero di coloro che grazie alla vicinanza con il Profeta potevano meglio interpretare alla sua morte il pensiero e l’eredità comportamentale muhammadica. Nel succedersi dei quattro Califfi Ben Guidati una parte della comunità riteneva dovesse essere legittimo nominare quale capo della umma i discendenti diretti in linea maschile del Profeta. La lotta per il potere si scatenò apertamente al momento della morte violenta del terzo califfo, ‘Uthman, avvenuta nel 656. La guerra che ne derivò non si risolse con la vittoria di una delle due fazioni avverse, ma fu causa della prima grande scissione del mondo arabo-islamico: la nascita della corrente sciita (ovvero i seguaci del nipote e genero del Profeta, ‘Ali, che ritenevano la successione dovesse avvenire all’interno della famiglia di Muhammad) e l’instaurazione della prima dinastia sunnita, gli Omayyadi.  Ciò che più interessa alla risoluzione del nostro quesito è quello che avvenne nel corso della seconda dinastia che succedette a quella omayyade, la dinastia degli Abbasidi. È stato proprio nel corso dell’impero abbaside che prese corpo quel fenomeno oppressivo di natura giuridico-religiosa che diede avvio a uno dei periodi più oscuri intellettualmente del mondo arabo-islamico. La ta’a, la persecuzione messa in atto dai califfi abbasidi nei confronti della corrente filosofica, religiosa e dottrinale della Mu’tazila. Il ragionamento personale, lo strumento prediletto dell’intelletto umano per la comprensione del mondo e della natura divina delle cose veniva trattato come un’eterodossia, veniva perseguito come contrario ai dettami religiosi. Il simbolo di questa oppressione divenne senz’altro la sentenza di morte inflitta nel 922 al mistico al-Hallaj, il quale venne accusato di eresia poiché aveva pronunciato la frase criminosa: “Io sono la Verità”. Attribuendo a se stesso uno dei 99 appellativi divini. La verità però è che la corrente mu’tazilita, considerata quasi un’eresia sunnita perché scuola di pensiero filosofico e intellettuale, caratterizzata dalla sua sete di conoscenza e di verità della natura divina delle cose, subì una persecuzione feroce da parte di quegli stessi governanti che un tempo avevano ritenuto  la conoscenza umana l’unico strumento per la conoscenza divina. L’illuminata dinastia abbaside si trasformò in una dittatura oscurantista, che impose alla religione il percorso obbligato dei desiderata dell’autorità. Tutto quello che si distanziava dai diktat moralisti del potere era contrario al volere di Dio, contrario all’ortodossia sunnita. La riflessione venne messa a bando. La filosofia, spregiativamente denominata con il termine di origine greca falasifa, rappresentava il germe dell’opposizione e dell’autonomia di raziocinio tanto temuta dai governanti abbasidi. I falasafa, i filosofi, così comunemente denominati tutti coloro che utilizzavano il ragionamento come strumento per la conoscenza dell’essenza divina anche in contrapposizione con l’autorità costituita, erano i soggetti cui era indirizzata la follia persecutrice. I filosofi e gli intellettuali liberi vennero condannati come infedeli, come atei. L’utilizzo di un termine straniero per definire il ‘nemico’ dell’ortodossia significava connotare quello stesso soggetto gharib, straniero. La ragione e l’opinione personale divennero imprese “straniere” e pertanto condannate dal regime. Ecco uno dei termini portanti del nostro discorso, gharib. Lo straniero e quindi oscuro, sconosciuto e terrificante, misterioso. Il maghreb, il luogo dell’oscurità, dove il sole tramonta, l’occidente. Gli stessi marocchini proprio per il nome con cui viene indicato il loro Paese (Maghrib) sono da sempre guardati con sospetto e con un velo di scetticismo per la loro ortodossia religiosa, considerata non da tutti i musulmani come totalmente ortodossa, perché ancora legata a tradizioni di origine berbera e contadina, e dunque precedenti l’islamizzazione. Da sempre lo straniero fa paura, incute timore perché rappresenta, incarna qualcosa che non si conosce, che non si comprende. Così, la lingua può aiutare a raffigurare tale sentimento. Nell’ebraico biblico lo straniero veniva identificato con il termine ger, un termine che al suo interno racchiudeva un senso di paura e di non accettazione. Il ger non poteva prendere parte alle attività della comunità, al ger, quasi fosse un nemico, era lecito prestare a interesse. Il ger non avrebbe mai potuto godere dello status di residente. In arabo, lo abbiamo appena visto, il gharib rappresenta non solo lo straniero ma acquisisce una connotazione ancor più geografica indicando precisamente il territorio strano dove tramonta il sole (e dove quindi le cose perdono i loro contorni definiti e illuminati dalla luce del giorno), l’occidente. In greco e in latino lo straniero era il barbaro (barbaros o barbaroi), il balbuziente, colui che non conoscendo la lingua locale stenta nella dialettica. Uno stentare linguistico, cui poco a poco è stata attribuita una connotazione negativa. I barbari erano le popolazioni del nord Europa, violenti e cruenti che saccheggiavano i domini romani e tentavano la conquista dell’Impero. Il gharb dunque, l’occidente oscuro e strano, identifica non solo geograficamente un luogo – lì dove il sole tramonta – ma tende a significare anche la forma di Stato figlia dell’Occidente, la democrazia. Nella democrazia, la volontà del popolo è libertà di pensiero e di espressione, è libertà di ciascun individuo ed è al contempo una libertà che i governanti arabi hanno tradotto con il termine shirk – e non invece con hurriyya, la libertà gioiosa che si ritrova anche nelle forme di Stato come quella libica, la jumhurriyya, ovvero una sorta di democrazia arabo-islamica –, la libertà disinibita e confusionaria dell’epoca preislamica, l’epoca dell’oscurità. Ecco la mistificazione dei governi arabo-islamici, con la consapevole e artificiale trasformazione, agli occhi del loro popolo, della democrazia nel luogo delle libertà selvagge e pagane, dove non regna il monoteismo e l’ordine. Il luogo oscuro che il profeta Muhammad ha sconfitto e dal quale ha liberato le menti degli arabi. E allora la democrazia si trasforma in un ‘nemico’ dal quale rifuggire, pregno com’è della sua religiosità politeista che rammenta alle menti la violenza delle genti di Mecca. Facciamo un passo indietro. Se vogliamo trovare un momento, una data che ha segnato una sorta di frattura sia con il mondo occidentale sia soprattutto all’interno degli Stati arabo-islamici, quella è il 1991. La prima guerra del Golfo, il periodo durante il quale le popolazioni arabo-islamiche hanno compreso due elementi precisi: nessun confine può proteggere dal gharb, dallo straniero; e il mondo arabo-islamico è vulnerabile. La paura e il terrore hanno rischiato di sopraffare le persone, ma allo stesso tempo è stato chiaro che l’unico mezzo per superare quella paura, l’unica reazione possibile era la comprensione di ciò che atterriva. Non dipende dall’Occidente straniero comprendere il mondo arabo-islamico, dipende dal mondo arabo-islamico comprendere l’Occidente. Ed ecco un altro termine utile al nostro ragionamento: qarar la consultazione. Ma anche jadal la discussione, il confronto. Il popolo arabo-islamico ha scoperto nel 1991 di non aver mai avuto accesso alla consultazione. Gli slogan dei manifestanti durante la prima guerra del Golfo gridavano il loro desiderio di democrazia, urlando “Non ci hanno consultato! La decisione è la nostra”. Ed eccola là, la paura che entra nelle stanze del potere. Diviene necessario a questo punto blindare la propria autorità e compiere un’operazione strategica di marketing: mascherare di estraneità la democrazia, farla divenire figlia di quell’oscurità che è il gharib. Trasferire la paura ancestrale dell’Occidente all’idea stessa di democrazia, questo è stato l’escamotage attraverso il quale i governi musulmani sono riusciti a garantirsi per decenni il proprio appannaggio politico. Un sistema questo, che ha ingannato molti. Anche io ne sono stata affascinata. Ripensare alla modernità con gli occhi del passato. Quale romanticismo se interpretato con la sicurezza della visione democratica e occidentale nel cuore. Il ritorno al passato interpretato come chiave di lettura del presente e del futuro non è uno strumento romantico e giuridicamente logico per superare le sfide della modernità, bensì solo il mezzo “politicamente corretto”  per coprire con un ulteriore chador il volto della democrazia in fieri. Per alcuni governi, per la maggior parte dei regimi musulmani, si ritiene sia più semplice proteggere i propri interessi se si fa ridiscendere la legittimità su terreni culturali simbolici. Se il culto ancestrale del sacro e del passato divengono l’emblema della giustizia e della liceità del potere, l’autorità del monarca, del capo di governo, del primus inter pares acquisisce la legittimità del governare. La negazione dell’intelletto, la persecuzione del raziocinio operate nel corso della dinastia Abbaside non si sono mai interrotte. Il din wa dawla al servizio del potere costituito. La religione diviene giustificazione e strumento per la soddisfazione degli interessi personali del capo. Se si riveste le azioni e la giustificazione del potere di religiosità, chi potrà mai andare contro il volere di Dio? Chi potrà mai mettere in dubbio che quella stessa scelta non sia stata operata per il tramite della benedizione divina? Ecco come fino a oggi la maggior parte dei governanti arabo-islamici hanno dominato incontrollati sui proprio cittadini/sudditi. La democrazia fa paura perché rappresenta la nuova Mu’tazila, i nuovi filosofi, il risveglio della ragione. Dio non ha mai negato l’utilizzo dell’intelletto umano, “la conoscenza è la più democratica delle fonti del potere”. “Discuti con loro nel modo migliore” (Corano XVI, 125).


Tratto da laici.it

giovedì 21 aprile 2011

Il capo del governo con gli occhi di Elsa Morante

"Il capo del Governo si macchiò ripetutamente durante la sua carriera
di
delitti che, al cospetto di un popolo onesto, gli avrebbero meritato
la
condanna, la vergogna e la privazione di ogni autorità di governo.

Perché il popolo tollerò e addirittura applaudì questi crimini?

Una parte per insensibilità morale, una parte per astuzia, una parte
per
interesse e tornaconto personale. La maggioranza si rendeva
naturalmente
conto delle sue attività criminali, ma preferiva dare il suo voto al
forte
piuttosto che al giusto.

Purtroppo il popolo italiano, se deve scegliere tra il dovere e il
tornaconto, pur conoscendo quale sarebbe il suo dovere, sceglie
sempre il
tornaconto.

Così un uomo mediocre, grossolano, di eloquenza volgare ma di facile
effetto, è un perfetto esemplare dei suoi contemporanei.

Presso un popolo onesto, sarebbe stato tutt'al più il leader di un
partito
di modesto seguito, un personaggio un po' ridicolo per le sue
maniere, i
suoi atteggiamenti, le sue manie di grandezza, offensivo per il buon
senso
della gente e causa del suo stile enfatico e impudico.

In Italia è diventato il capo del governo. Ed è difficile trovare un
più
completo esempio italiano.

Ammiratore della forza venale, corruttibile e corrotto, cattolico
senza
credere in Dio, presuntuoso, vanitoso, fintamente bonario, buon padre
di
famiglia ma con numerose amanti, si serve di coloro che disprezza,
si
circonda di disonesti, di bugiardi, di inetti, di profittatori; mimo
abile,
e tale da fare effetto su un pubblico volgare, ma, come ogni mimo,
senza un
proprio carattere, si immagina sempre di essere il personaggio che
vuole rappresentare."

                                                Elsa Morante (1945)

PS: il capo del governo in questione era Benito Mussolini

martedì 19 aprile 2011

Il mito del posto fisso

c'è un articolo molto interessante di Irene Tinagli del 9 marzo scorso sulla Stampa che ribadisce, statistiche alla mano, quanto sia utile studiare e conseguire un titolo di studio, una laurea. L'istat infatti dice che chi possiede un diploma di scuola superiore ha meno possibilità di raggiungere una stabilità lavorativa e un'adeguata retribuzione. Insomma, i laureati ottengono più facilmente un lavoro (l'80% dei laureati a 5 anni dalla laurea ha un'occupazione) e guadagnano in media il 55% in più rispetto a un 'semplice' diplomato.
A parte i dati, secondo me c'è qualcosa su cui riflettere.
La laurea è diventata un po' pret à porter, tantissimi corsi il più delle volte poco 'utili' ma decisamente affascinanti e bizzarri, un accesso allo studio semplificato soprattutto grazie a mini esami e mini corsi, una laurea in tre anni che non prevede nemmeno la realizzazione di una ricerca strutturata, ma semplicemente una 'tesina' di 30 pagine. Il gioco è fatto. Però, i dati degli iscritti scendono.
Poca voglia di studiare? o poca, pochissima fiducia nel futuro?
ma il futuro che cos'è, un posto fisso?
i nostri genitori ambivano al posto fisso, era un loro diritto, il frutto di una loro battaglia. i nostri genitori hanno ottenuto (nella maggior parte dei casi) un posto fisso. e noi? siamo ancora così legati al mito del posto fisso?
è paradossale ogni tanto scambiare quattro chiacchiere con alcuni compagni. siam diventati internazionali, non solo europei, giriamo il mondo, parliamo tante lingue, snobbiamo spesso l'italia ma... al posto fisso e alle garanzie a tutto tondo, non vuole rinunciare nessuno. ma, posto fisso? garanzie?
qui è già tanto se si trova un'occupazione (e se sei donna è ancora più complicato, in particolar modo se in odor di maternità)!
insomma, il tempo indeterminato è la nostra chimera, come tutte le garanzie sindacali a lui connesse.
c'era un tempo però in cui con le amiche si discuteva se valesse la pena il posto fisso o se noi fossimo più predisposte per una flessibilità mondiale. ora invece quelle stesse amiche si sgolano nella difesa del tempo indeterminato.
certo, il nostro sistema ha istituito la flessibilità ma non l'ha mai 'accettata'. Tu sei flessibile, mentre io giaccio immobile sulla mia poltrona di marmo. Tu devi essere flessibile, ma per me sei solo carne da macello.
io sono e voglio essere flessibile, non voglio rinchiudere la mia vita in una gabbia in cui edificare una tana di cemento.
non voglio scaldare una poltrona, voglio costruirne di nuove.
 

giovedì 14 aprile 2011

La disfatta della giustizia italiana

Quello che è successo ieri sera nell'aula della Camera è stato uno spettacolo raccapricciante e decisamente triste. Vorrei riportare solo alcuni dei commenti dei vari esponenti delle forze politiche, espressi poco dopo i risultati dell'aula. A scrutinio segreto, si finisce alle 20h30 con un 316 a 288 (il primo emendamento palese era terminato con 310 a 294).
Il capogruppo Pdl Cicchitto: "non ci faremo processare nelle piazze, siamo una macchina da guerra, è la disfatta della sinistra...". Agguerrito.
Denis Verdini, coordinatore Pdl: "Conta che abbiamo tenuto bene per due giorni e dimostrato coesione".
Calogero Mannino, ex Udc, ora Misto: "il ritorno dell'immunità". Vagheggiamenti.
Umberto Bossi, Lega: "abbiamo votato e i numeri sono buoni".
Carolina Lussana, Lega: "Il processo breve ce lo chiede l'Europa".
Enrico Franceschini, Pd: "Abbiamo fatto tutto quello che si poteva fare".
Pierferdinando Casini, Udc: "Questa legge non reggerà le future verifiche sul piano costituzionale". Speranzoso.
Italo Bocchino, Fli: "E' triste vedere la nostra Camera bloccata alla presenza di tutti i ministri al solo fine di far prescrivere il processo Mills". Tragicamente ottimista.
Benedetto Della Vedova, capogruppo Fli: "Avete umiliato il Parlamento".
Fabio Granata, Fli: "Hanno demolito la giustizia, ma noi ricostruiremo il patriottismo". Patriottico
Antonino Lo Presti, Fli: "Per gli ex An ed ex forzisti, uniti nella devastazione del diritto, il tribunale sarà quello elettorale". Futurista.

mercoledì 13 aprile 2011

Il pomo della discordia.

Ricordo benissimo la storia del pomo della discordia, era una traduzione di latino o greco, non ricordo più, forse in entrambe le lingue. Era una storia con una morale, stuzzicava l'invidia tra belle donne (in questo caso dee), che si contendevano il pomo d'oro, l'ambito premio per la dea più bella.
Ebbene, riporto qui di seguito un mio articolo che ha dimostrato di partecipare al giochino: quale articolo sarà più bello (e più completo, meglio articolato, una migliore analisi della normativa ecc) sull'usura. Questo qui ha fatto venire i capelli bianchi a qualcuno, ma d'altronde a me sono venuti prima per i suoi articoli un po' sconclusionati e poco legati all'interpretazione della norma dal punto di vista del Legislatore, del giurista e non dell'attore di parte.


Chiara ScattoneLe piccole e medie imprese non riescono più a trovare credito presso le banche: perché? È colpa della crisi internazionale che ci sta travolgendo oramai da qualche anno e che, secondo gli auspici degli economisti, ancora non ha raggiunto il nostro Belpaese, oppure è colpa di un sistema bancario nazionale troppo chiuso su se stesso? Com’è possibile far sì che anche le piccole e medie imprese, il vero motore della nostra economia – ancora troppo saldamente legata a logiche familiari e nazionali – siano in grado di raggiungere il tanto agognato e necessario per la sopravvivenza, in alcuni casi, credito bancario? Le nostre banche sono istituzioni così macchinose e austere da non concedere tanto facilmente credito all’impresa, oppure il meccanismo nel quale spesso si precipita è talvolta perverso e manipolato? Forse, la risposta la si potrebbe trovare analizzando l’operato delle banche inglesi, che seguono il modello di sistema bancario islamico, unico sistema che, a oggi, non sembra aver ceduto il passo alla crisi internazionale. Certo è, comunque, che le imprese italiane hanno difficoltà ad accedere al credito bancario: gli istituti di credito non concedono più finanziamenti, se non a fronte della presentazione di garanzie solide e spesso sovradimensionate rispetto al capitale richiesto. Secondo quanto riportato dalle statistiche della Banca d’Italia nei suoi Bollettini Statistici pubblicati trimestralmente, il credito concesso alle imprese, ovvero gli ‘impieghi’ delle stesse, suddivise in tre differenti categorie 'industria', 'edilizia' e 'servizi', tra il quarto trimestre del 2008 e il quarto trimestre del 2010 non ha subito scostamenti di rilievo (i Bollettini Statistici sono facilmente reperibili sul sito della Banca d’Italia www.bancaditalia.it alla voce ‘Statistiche’). I dati sembrano dimostrare una situazione di richiesta e concessione del credito, sia per quel che concerne gli impieghi, sia per quanto riguarda i ‘finanziamenti per cassa’, che si mantiene pressoché stabile e costante negli ultimi tre anni. Ma cos’è cambiato dal punto di vista normativo in questi ultimi anni?

L'introduzione della regolamentazione bancaria internazionale di Basilea 2
Nei primi mesi del 2007 è entrato in vigore il nuovo accordo sottoscritto dal Comitato di Vigilanza sulle banche, denominato Basilea 2. Tra il 2007 e il 2008 – la Direttiva comunitaria prevedeva per gli istituti una proroga di un anno per l’adeguamento completo alla nuova disciplina – le banche italiane e internazionali hanno dovuto necessariamente adattarsi alle nuove direttive. Non tutti i soggetti sono apparsi favorevoli ed entusiasti della riforma, che ha riguardato principalmente gli strumenti interni di controllo e di stabilità del patrimonio, richiedendo requisiti patrimoniali più solidi. Tra le nuove regole introdotte dall’accordo vi sono, dunque, l’introduzione di nuovi sistemi di monitoraggio interno dei rischi creditizi, la rilevazione e la auto-valutazione dell’adeguatezza patrimoniale (ICAAP) – requisiti previsti dal “secondo pilastro” dell’accordo – e i requisiti di trasparenza informativa nei bilanci di esercizio, così come introdotti dal “terzo pilastro”. La vigilanza prudenziale è, allora, l’aspetto più importante, e soprattutto la richiesta di una maggiore e migliore capacità di misurazione e di gestione dei rischi del sistema bancario. In questo ambito forse è rinvenibile il primo elemento di contrasto con la difficoltà di accesso al credito delle imprese nostrane. Miglioramenti nel calcolo dei rischi e nella gestioni degli stessi, comportano indubbiamente una maggiore attenzione alla composizione del proprio bacino di clientela. Ma questa ‘selezione’ più attenta del cliente è foriera di un’incidenza negativa sul sistema imprenditoriale? La logica detterebbe una risposta contraria: una crescente e costante attenzione dei meccanismi di rischio a fini prudenziali non esclude affatto la possibilità per la banca di migliorare la propria gestione e la propria proposizione commerciale. Anzi, in quest’ottica non vi è alcun riferimento all’accesso al credito, semmai l’accordo, prevedendo il rafforzamento gestionale dei rischi di settore, obbliga tutti i soggetti del sistema bancario ad adeguarsi strumentalmente proprio per garantire una corretta analisi degli stessi. Il sistema imprenditoriale, o più correttamente il bacino di clientela di ogni singolo istituto di credito, dal 2008, proprio in ragione di tale adeguamento regolamentare, è stato soggetto a una valutazione da parte della banca di riferimento. Ogni impresa è stata dunque classificata secondo una scala di valore o rating, che ne ‘giudica’ lo stato e le prospettive future. Basilea 2 dunque ha introdotto, tra l’altro, un nuovo modo di ‘fare credito’ e di valutare il credito, che non si limiti più solamente alla conoscenza con l’imprenditore o alla presentazione di garanzie reali o atipiche (immobili o fidejussioni), bensì che concerni gli aspetti imprenditoriali previsionali futuri. Nei fatti, la documentazione da presentare alla banca non è cambiata, si sono modificati gli aspetti (imprenditoriali e di business) valutati dall’istituto nell’analisi sulla bontà e affidabilità creditizia del cliente.

Come si concilia con le nuove regole bancarie un sistema economico e imprenditoriale di stampo familistico?
Ecco forse il punto di scontro tra impresa (italiana) e banca. È il nostro sistema aziendale a non essersi dunque adeguato ai nuovi profili regolamentari? La nostra economia viene definita ‘familistica’, ovvero costruita secondo logiche che riprendono quelle familiari. La maggior parte delle nostre imprese – tra cui le stesse che si fregiano nel mondo del marchio ‘made in italy’ – sono organizzate prevalentemente secondo lo schema e la logica commerciale: di fatto gestite in prima persona dal loro stesso fondatore o dai suoi stretti familiari. Sono veramente poche pertanto quelle imprese che possono vantare una buona ed efficiente conoscenza dei sistemi finanziari, un’inadeguatezza questa che comporta logicamente una difficoltà a gestire il rapporto con il credito. La logica del ‘padrone’ che gestisce un impresa nazionale si discosta da quella invece auspicata nell’Accordo di Basilea 2. L’uso del credito bancario diviene così un utile strumento, non tanto di sostentamento, quanto di sostegno agli investimenti, strumentali od operativi, che debbono essere necessari allo sviluppo dell’attività imprenditoriali e non alla gestione corrente dell’azienda. Il nocciolo della questione potrebbe essere proprio questo, è decisivo cambiare la mentalità dell’imprenditore, l’esposizione nei confronti delle banche non può essere l’unico strumento con il quale portare avanti l’attività, ma dovrebbe divenire il mezzo per ampliare la propria impresa e affrontare il business. Tale ragionamento, però, non tiene conto di tutte quelle disfunzioni economiche – quali sono stati il passaggio all’euro e la crisi economica di questi ultimi 10 anni – che ricadono negativamente sulla capacità di acquisto dei consumatori e che quindi prescindono dalla capacità imprenditoriale delle imprese stesse. Una situazione che in Italia sta portando sul lastrico molte imprese o nel peggiore dei casi ha costretto alla chiusura molte attività. Nella forbice della stretta economica appare sempre più evidente un’endemica mancanza di liquidità che si concretizza in scadenze di pagamenti non rispettate anche da parte di committenti che fino ad oggi problemi non sembravano averne. Ne deriva un effetto domino a catena che penalizza l’intero sistema economico. La situazione è ulteriormente appensantita da un’assenza di previsioni su cosa accadrà in futuro che impedisce alle imprese di organizzare piani di rientro piuttosto che di sviluppo. In tutto ciò le banche, che a dire il vero sarebbero le uniche a godere del vantaggio di interessi di sconfino pagati profumatamente, sono irrigidite dalle nuove direttive comunitarie e non garantiscono laddove non hanno garanzie.

La crisi economica e la risposta del G20
In una situazione già molto critica, che sembrerebbe senza via di uscita, ulteriori direttive introdotte con Basilea 3 sono destinate a determinare gli equilibri fra banche e imprese. Il Comitato di Vigilanza sulle banche il 26 luglio e il 12 settembre 2010 ha approvato le nuove linee portanti della riforma, così come richiesto su indicazione del  Financial Stability Board dai leader del G20. Le nuove regole di Basilea 3, ratificate nel novembre 2010 dai Capi del G20 a Seoul, concernono principalmente la prosecuzione del percorso di rafforzamento della qualità e della quantità del capitale bancario iniziato nel 2007/2008 con l’accordo precedente. Verranno introdotti, nel corso del periodo transitorio che sfocerà con l’obbligatorietà dell’adeguamento dal gennaio 2013, nuovi standard patrimoniali, che avranno lo scopo di attenuare i possibili effetti prociclici delle regole prudenziali e di assicurare un controllo più attento del rischio di liquidità. Il nuovo accordo di Basilea 3, così come quello precedente segue la linea ben precisa della solidità patrimoniale del sistema bancario nel suo complesso e dunque delle singole istituzioni bancarie e finanziarie nel dettaglio. Entrambe le riforme perseguono l’obiettivo di rendere più solido il patrimonio – ma allo stesso tempo anche più liquido, in maniera da affrontare eventuali squilibri di liquidità che possano provocare possibili instabilità dell'intermediario –, garantendo anche la possibilità di accantonare una sorta di ‘capitale cuscinetto’ aggiuntivo quale riserva preventiva negli eventuali periodi di ‘surriscaldamento del credito’. L’esperienza dei mutui subprime e del crollo finanziario partito dagli Stati Uniti e dilagatosi in tutto il Vecchio Continente ha probabilmente fatto sì che il G20 richiedesse ulteriori riforme strutturali per garantire e tutelare non solo la stabilità del mercato economico-finanziario interno, ma soprattutto per agevolare una fase di crescita necessaria per la totale ripresa di tutto il sistema. I requisiti e i criteri diverranno più severi, ma tale severità sarà diluita nel tempo proprio per non compromettere la ripresa e per assicurare all’economia (nazionale) un regolare afflusso di capitale e di credito. Malgrado tutte le suddette rassicurazioni, però, fin da subito le banche e le aziende sono scese sul piede di guerra. Nella lettera dell’ex a.d. di Unicredit Alessandro Profumo (pubblicata anche su www.corriere.it) inviata alla vigilia dell’approvazione dell’Accordo al presidente della Bce, Trichet, e al presidente della Commissione europea, Barroso, si evidenzia una preoccupazione vibrante sugli effetti che le nuove regole potrebbero comportare all’intero sistema, sulla crescita occupazionale e industriale di tutta l’Europa. I nuovi criteri patrimoniali potrebbero difatti fare aumentare i costi per la raccolta delle banche e conseguentemente il costo del denaro stesso per l’intero sistema, decretando così un ulteriore freno alla crescita. Del futuro, quindi, continua a non esservi certezza nè su come la nuova riforma introdotta dall’accordo di Basilea 3 – una riforma quasi prettamente patrimoniale e prudenziale – inciderà sulla struttura bancaria e imprenditoriale italiana e internazionale. Sempre che, da qui al 2013, non intervengano nuovi e inattesi elementi, non in ultimo la ricomparsa di un certo tipo di ‘sfrontatezza’ e della ‘spregiudicatezza’ nelle logiche finanziarie quali quelle che hanno condannato in questi ultimi anni l’intero sistema ad una crisi pandemca estremamente pervasiva che l’Italia per ora ha solo sfiorato e per le quali è stato necessario fissare le nuove regole che oggi ci penalizzano tanto.

La nuova regolamentazione bancaria introdotta dall'accordo di Basilea 3
Il Comitato di Basilea ha lanciato una revisione delle regole che gestiscono il sistema bancario mondiale. Sull'onda del fallimento della regolamentazione precedentemente – entrata  a pieno regime nel 2008 – determinato dalla crisi sistemica internazionale che ha sconvolto le economie di tutto il mondo occidentale, il G20 ha dato avvio su indicazione del Financial Stability Board (*) la consultazione per una nuova regolamentazione dei mercati che fosse più stringente e che garantisse criteri di vigilanza prudenziale più severi. La riforma così studiata è stata approvata dal G20 di Seul nel novembre 2010, ma la sua introduzione nel sistema bancario avverrà con gradualità solo nel 2013. Gli aspetti principali di tale intervento riguardano:

- la definizione di requisiti più rigorosi in termini di capitale 'migliore' da utilizzare nei casi di crisi (il Common Equity Tier 1 al 4,5 per cento in rapporto alle attività di rischio);

- la creazione di una riserva di 'capitale cuscinetto' (o Capital Conservation Buffer) pari al 2,5 per cento del CET 1, da alimentare nei momenti di prosperità e sfruttare in quelli di crisi;

- l'accantonamento di un ulteriore capitale di riserva, Countercyclical Buffer (pari al massimo all'1,5 per cento del Tier 1) da alimentare durante i cicli positivi e dunque più rischiosi, in maniera da contenere il rischio nel caso in cui questo si manifestasse;

- l'introduzione di una leva finanziaria (Leverage Ratio) con il compito di limitare il livello in indebitamento nelle fasi di eccessiva crescita e di supplire ad eventuali carenze nel sistema dei controlli interni nella valutazione dei rischi.

Il fallimento degli accordi di Basilea 2L'accordo c.d. di Basilea 2 (il primo accordo emanato dal Comitato di Basilea sui regolamenti internazionali bancari venne redatto nel 1988) è un accordo internazionale che regola e stabilisce dettagliatamente i requisiti patrimoniali che ciascun istituto di credito deve garantire. La logica che muove tale regolamento è la seguente: a un maggior rischio deve necessariamente fare seguito un maggior accantonamento di riserve patrimoniali cui fare ricorso nel caso di periodi di crisi. Lo scoppio della crisi economica internazionale ha dimostrato che probabilmente le regole precedentemente sottoscritte nell'ambito di Basilea 2 non erano state in grado di fare fronte ad emergenze di questo genere. Il rigore con cui erano state composte e spesso criticate dagli operatori del settore non è stato sufficiente. Nel dettaglio, l'Accordo di Basilea 2 era organizzato secondo tre pilastri:

1. l'adozione di criteri patrimoniali minimi: per contrastare il rischio di credito mediante l’adozione di strumenti di mitigazione e di controllo interno per la valutazione dei rischi di credito di controparte e di operazione (sistema di internal auditing) e per contrastare i rischi operativi.

2. il controllo da parte delle Banche centrali, le quali disporranno di una maggiore autonomia e discrezionalità nella valutazione dell'adeguatezza patrimoniale degli istituti controllati. A tal fine le Banche centrali dovranno assicurarsi che ciascun soggetto sottoposto a vigilanza sia dotato degli strumenti idonei, delle valide procedure interne per la valutazione della propria adeguatezza patrimoniale (ICAAP).

3. la disciplina del mercato e la trasparenza. Sono previste a tal fine regole precise per la trasparenza delle informazioni sui livelli patrimoniali, sui rischi e sulla gestione degli stessi al pubblico.

Tratti da periodicoitalianomagazine.it

Report e i direttori del personale

E noi che ci eravamo fatti un'idea sbagliata...
Se le aziende posssono 'spiare' le nostre abitutidini attraverso le informazioni che immettiamo nella galassia dei social network, non è sempre detto che questo impicciarsi non sia a fin di bene.
è una delle notizie di stamattina (subito dopo la più succosa rivelazione di due 18enni  "alle 'eleganti' serate di Arcore") di Repubblica.
7 direttori del personale su 10 dall'inizio di questo anno hanno fatto uso del web per rintracciare e recuperare informazioni sui candidati che stavano per assumere. Sbagliato? Può essere. Una forma di tutela? Forse. Curiosità? Può darsi. Certo è che spesso durante i colloqui non si dice tutta la verità (e va bene) e talvolta si rischia di omettere informazioni para-professionali che si ritengono poco valide o poco interessanti per un futuro lavorativo e che invece, se e quando scoperte tramite il web, contribuiscono positivamente nella scelta di un candidato.
D'altronde il rapporto è reciproco, Magda. Chi, prima di andare ad un colloquio, non sbircia per benino tutte le info sul futuro probabile datore di lavoro? E allora, se noi abbiamo il diritto di sapere dove vogliamo andare a lavorare, probabilmente anche l'azienda avrà diritto (o perlomeno curiosità e coscienza) di sapere chi si sta mettendo dentro casa.

martedì 12 aprile 2011

OTTO E MEZZO 11/04/2011 - La lucciola d'Egitto

Strategia di Lisbona... ma esiste?

Se si leggono i documenti della Strategia di Lisbona, si capisce come il nostro governo non ha praticamente fatto nulla di quello che era stato previsto e sottoscritto. Aveva ragione Travaglio ieri ad Otto e mezzo, l'Italia ha perso il suo slancio e la sua serietà in Europa dai tempi di De Gasperi. Oggi siamo decisamente poco credibili... non crediamo noi stessi a quello che diciamo?!

l'agenda di Lisbona e le intenzioni del governo

Certo, mentre noi donne ci arrovelliamo il cervello nel tentativo di escogitare nuovi 'escamotage' per eliminare o perlomeno ridurre sensibilmente le disparità di genere che sussistono e sono ben radicate in questo nostro strano Paese nel mondo del lavoro e nella società. Mentre noi scendiamo in piazza e gridiamo che abbiamo una dignità che va rispettata e dei diritti che debbono essere tutelati. Mentre noi combattiamo tutti i giorni per la nostra parità e per un'uguaglianza che nel mondo del lavoro ancora non c'è. Mentre noi facciamo tutto questo, c'è qualcuno in questo strano Paese che dice:
1. "Pagai Ruby perché non si prostiuisse". La redenzione di una prostituta minorenne e nipote di Mubarak?
2. "Mi chiedo se abbia senso restare nell'Unione Europea". UE unico sostegno credibile per questo nostro strano Paese.
Se non fosse tragico sarebbe estramamente comico.
Ma poi, fino all'altro ieri in Parlamento non si è sostenuto e dibattuto alacremente che mister B. non fosse a conoscenza del reale mestiere di Ruby? E perché mai, egli ieri ha affermato il contrario? Allora se lo sapeva perché ha utilizzato il verbo "pagare" che tanto disturba la vice ministro Casellati e non il verbo ben più 'delicato' di "donare"?

lunedì 11 aprile 2011

Post scriptum

Facebook mi ha bloccato la condivisione del pezzo sulle donne per motivi di contenuto "non gradito" o cose simili. Mah, la puntata di Report è stata piuttosto illuminante.

Evoluzionismo e islam?


Durante l’ultima lezione del venerdì un mio studente mi ha chiesto: “prof, esiste la teoria dell’evoluzionismo darwiniano nell’islam?”.
Sono un po’ caduta dalle nuvole. È vero che avevo appena annunciato alla classe che il mese prossimo faremo una lezione in comune con la prof di storia della scienza per cercare di discutere sulla questione della bioetica nell’islam, ma darwin e l’islam sinceramente non ci avevo mai pensato. E allora, ho cercato di riflettere brevemente per poter rispondere almeno parzialmente al mio studente. Il risultato? Cerchiamo di riflettere ora, così, a mente libera.
La teoria dell’evoluzionismo ovviamente nell’epoca classica dell’islam era totalmente sconosciuta. L’islam nacque nel VII secolo dopo Cristo. L’ègira (l’anno zero dell’islam, l’anno della trasmigrazione della comunità muhammadica da Mecca a Medina) è il 622. Riflettiamo ancora. La prima rivelazione afferma: “Grida nel nome del tuo Signore, che ha creato, che ha creato l’uomo da un grumo di sangue!” (sura XCVI, 1-2). L’uomo è dunque stato creato da un grumo di sangue. Un primo elemento interessante per cercare di rispondere alla nostra questione. Evoluzionismo, grumo di sangue. Adamo ed Eva sono citati nel Corano, la loro storia, il loro ‘tradimento’ nei confronti della benevolenza divina è presente, anche se mostra alcune diversità con il racconto biblico. Eva non ha indotto Adamo a mangiare il frutto proibito, bensì Adamo ad essere tratto in inganno da Iblis a mangiare (insieme ad Eva) dall’albero dell’eternità. Adamo ed Eva non rappresentano i progenitori della specie umana, la loro figura è un’allegoria religiosa. Dio ha creato il mondo per l’uomo, perché questi è il vicario di Dio in terra. E l’uomo è nato da un grumo di sangue. Ci stiamo forse perdendo?

giovedì 7 aprile 2011

Donne che escono dal mondo del lavoro dopo il primo figlio. Ravenna

Solo qualche piccolo dato.
Ieri pomeriggio a Ravenna, nella sala presso la sede della Banca Popolare di Ravenna, si è tenuta la presentazione del libro di Paola Profeta, Donne in attesa. La presentazione è stata organizzata dalla Fidapa (Federazione Italiana Donne Arti Professioni e Affari) e dalla Camera di Commercio ravennate.
Al termine della presentazione, l'assessore alle pari opportunità del comune ha sciorinato qualche dato interessante. Eccoli.
In Italia in media solo 12,7% dei bambini va al nido (in Campania solo l'1%, in Emilia Romagna circa il 26%), contro la previsione dell'Agenda di Lisbona del 33%. La media europea è ovviamente più alta.
Colpa delle politiche assistenziali nazionali?
Certamente se pensiamo che quest'anno il governo ha azzerato il Fondo per il Piano Nidi.
Per fortuna qualche regione va bene e ad esempio il modello nido dell'Emilia Romagna rappresenta un modello di studio anche nelle facoltà universitarie (ad es. in Bocconi).
Nel 2010 nel comune di Ravenna, 147 donne con la nascita del primo figlio hanno deciso di lasciare il proprio lavoro. L'uscita del mondo del lavoro, che per lo più avviene dopo il primo figlio, è nella maggior parte dei casi definitiva.
Le 147 donne di Ravenna avevano un età media compresa tra i 26 e i 35 anni e lavoravano prevalentemente nel commercio e nell'industria.
Le motivazioni dell'abbandono:
1- mancato accoglimento nei nidi pubblici
2- mancanza dei parenti vicini
3- elevata incidenza dei costi per l'assistenza al neonato
4- cambio azienda
5- mancata concessione del part-time (provvisorio)

C'è molto ancora da fare. Ma quando si comincia?

mercoledì 6 aprile 2011

Donne e lavoro


Dal 2015 in tutti i Consigli di Amministrazione delle società italiane dovranno prendere parte un numero prestabilito di donne. Dal 2015 entrano ufficialmente in vigore le ‘quote rosa’ dell’economia. Un Ddl del Senato approvato il 14 marzo scorso ha stabilito che le donne dovranno partecipare almeno per il 30 per cento alla vita economica delle aziende italiane. I tempi per l’entrata in vigore del decreto sono lunghi, le aziende e i loro dirigenti hanno così la possibilità di abituarsi all’idea che fra qualche anno dovranno cedere il passo e la sedia ad una signora. Ma era realmente necessaria questa manovra politica? Le opportunità di una carriera, di una riuscita professionale per le donne sono cose talmente rare e talmente distanti che quando queste avvengono ci sembrano un eccezione e quasi un miracolo.
I dati sulla disoccupazione giovanile, ovvero dei giovani tra i 15 e i 24 anni – ma non vi è l’obbligo scolastico? – è in continuo aumento, l’Istat afferma che alla fine del 2010 il dato si aggirava sul 29 per cento – a febbraio 2011 questo dato è sceso al 28,1 per cento. L’elemento che però preoccupa maggiormente non è quello sulla disoccupazione giovanile, i ragazzi a 15 anni vanno per lo più ancora a scuola, ma quel che riguarda l’inattività, le persone che scelgono, consapevolmente o come scelta obbligata, di rinunciare alla ricerca di un lavoro. Gli inattivi sono aumentati dello 0,1 per cento a febbraio rispetto al mese precedente, raggiungendo un tasso complessivo del 38 per cento – tutti i dati sono tratti dal sito dell’Istat. I dati statistici poi non prendono in considerazione alcune realtà sociali cui spesso siamo noi stessi ad essere i testimoni più attendibili. È la realtà della vita quotidiana, delle persone che ci circondano, con le quali veniamo in contatto durante la giornata, che rappresentano più da vicino un microcosmo completo della società italiana. Tra le tante storie cui siamo attenti osservatori, un dato è certamente quello più significativo, perché denota un cambiamento che si sta verificando in parte del nostro Paese: l’inattività femminile. O per meglio dire, la rinuncia, sofferta, alla ricerca di un posto di lavoro. Il più delle volte questa scelta scaturisce dopo l’ennesimo licenziamento, dopo la scadenza del contratto a progetto, del tempo determinato, dell’interinale. Ci si stanca di cercare di nuovo, mettersi ancora in gioco, abbassare nuovamente la testa e accettare tutto quello che offre il mercato. Il mercato oggi poi offre molto poco e se non si ha la necessità di ‘dover mangiare’, allora sembra più facile smettere un poco alla volta di inviare il curriculum, di rispondere agli annunci di lavoro. Tanto poi, non ti risponde mai nessuno e a questo punto non serve neanche più. Il lavoro lo trovi se sei molto fortunato o se sei molto sponsorizzato. La malattia più diffusa in questo nostro strano Paese è quella del nepotismo, la famiglia patriarcale si è talmente radicata nella nostra indole e nella nostra mentalità, che anche al di fuori delle mura domestiche i rapporti subiscono le stesse distorsioni, gli stessi atteggiamenti. Ricerchiamo perversamente un padre che ci guidi, anche nel mondo del lavoro, anche al di fuori della nostra famiglia; un padre che si prenda cura di noi, che ci indichi il cammino, ci spiani la strada verso ‘la felicità’.
Il lavoro è realmente la felicità? È la domanda cui mi ha sottoposto una mia amica, inattiva ma che aiuta la madre nella gestione della loro piccola attività commerciante. Non si è altrettanto felici non lavorando, ma appagando la propria vita nell’ambito intimistico, personale, familiare. La professione rappresenta l’agapè? La domanda nasconde un dubbio, fors’anche un segreto. Si è soddisfatti di se stessi, e dunque degli altri, solo quando si ha una professione appagante e magari anche ben retribuita? Non credo la risposta sia positiva, credo ugualmente che l’insoddisfazione personale possa essere generata dalla frustrazione di un lavoro che ai nostri occhi appare misero o dall’assenza di un lavoro e la difficoltà di trovarne un altro.