"Un caffé per me e per la mia coscienza"

mercoledì 6 aprile 2011

Donne e lavoro


Dal 2015 in tutti i Consigli di Amministrazione delle società italiane dovranno prendere parte un numero prestabilito di donne. Dal 2015 entrano ufficialmente in vigore le ‘quote rosa’ dell’economia. Un Ddl del Senato approvato il 14 marzo scorso ha stabilito che le donne dovranno partecipare almeno per il 30 per cento alla vita economica delle aziende italiane. I tempi per l’entrata in vigore del decreto sono lunghi, le aziende e i loro dirigenti hanno così la possibilità di abituarsi all’idea che fra qualche anno dovranno cedere il passo e la sedia ad una signora. Ma era realmente necessaria questa manovra politica? Le opportunità di una carriera, di una riuscita professionale per le donne sono cose talmente rare e talmente distanti che quando queste avvengono ci sembrano un eccezione e quasi un miracolo.
I dati sulla disoccupazione giovanile, ovvero dei giovani tra i 15 e i 24 anni – ma non vi è l’obbligo scolastico? – è in continuo aumento, l’Istat afferma che alla fine del 2010 il dato si aggirava sul 29 per cento – a febbraio 2011 questo dato è sceso al 28,1 per cento. L’elemento che però preoccupa maggiormente non è quello sulla disoccupazione giovanile, i ragazzi a 15 anni vanno per lo più ancora a scuola, ma quel che riguarda l’inattività, le persone che scelgono, consapevolmente o come scelta obbligata, di rinunciare alla ricerca di un lavoro. Gli inattivi sono aumentati dello 0,1 per cento a febbraio rispetto al mese precedente, raggiungendo un tasso complessivo del 38 per cento – tutti i dati sono tratti dal sito dell’Istat. I dati statistici poi non prendono in considerazione alcune realtà sociali cui spesso siamo noi stessi ad essere i testimoni più attendibili. È la realtà della vita quotidiana, delle persone che ci circondano, con le quali veniamo in contatto durante la giornata, che rappresentano più da vicino un microcosmo completo della società italiana. Tra le tante storie cui siamo attenti osservatori, un dato è certamente quello più significativo, perché denota un cambiamento che si sta verificando in parte del nostro Paese: l’inattività femminile. O per meglio dire, la rinuncia, sofferta, alla ricerca di un posto di lavoro. Il più delle volte questa scelta scaturisce dopo l’ennesimo licenziamento, dopo la scadenza del contratto a progetto, del tempo determinato, dell’interinale. Ci si stanca di cercare di nuovo, mettersi ancora in gioco, abbassare nuovamente la testa e accettare tutto quello che offre il mercato. Il mercato oggi poi offre molto poco e se non si ha la necessità di ‘dover mangiare’, allora sembra più facile smettere un poco alla volta di inviare il curriculum, di rispondere agli annunci di lavoro. Tanto poi, non ti risponde mai nessuno e a questo punto non serve neanche più. Il lavoro lo trovi se sei molto fortunato o se sei molto sponsorizzato. La malattia più diffusa in questo nostro strano Paese è quella del nepotismo, la famiglia patriarcale si è talmente radicata nella nostra indole e nella nostra mentalità, che anche al di fuori delle mura domestiche i rapporti subiscono le stesse distorsioni, gli stessi atteggiamenti. Ricerchiamo perversamente un padre che ci guidi, anche nel mondo del lavoro, anche al di fuori della nostra famiglia; un padre che si prenda cura di noi, che ci indichi il cammino, ci spiani la strada verso ‘la felicità’.
Il lavoro è realmente la felicità? È la domanda cui mi ha sottoposto una mia amica, inattiva ma che aiuta la madre nella gestione della loro piccola attività commerciante. Non si è altrettanto felici non lavorando, ma appagando la propria vita nell’ambito intimistico, personale, familiare. La professione rappresenta l’agapè? La domanda nasconde un dubbio, fors’anche un segreto. Si è soddisfatti di se stessi, e dunque degli altri, solo quando si ha una professione appagante e magari anche ben retribuita? Non credo la risposta sia positiva, credo ugualmente che l’insoddisfazione personale possa essere generata dalla frustrazione di un lavoro che ai nostri occhi appare misero o dall’assenza di un lavoro e la difficoltà di trovarne un altro.

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